25 luglio 1943: il crollo del regime, gli scioperi in Cantiere e la scelta della montagna

Pubblichiamo volentieri questo scritto di Luciano Patat (da Associazione Culturale Apertamente)

Nell’Isontino la notizia delle dimissioni e dell’arresto di Mussolini e della nomina del generale Pietro Badoglio alla guida del Governo viene accolta con sorpresa e con gioia dalla gente, che pensa che la guerra sia finita e che con essa siano terminate le sofferenze e le privazioni subite nel corso del conflitto. Nei paesi, però, la situazione si mantiene tranquilla e solo in alcuni centri si segnalano manifestazioni di piazza che assumono carattere antifascista ma che vengono prontamente represse dall’intervento dei militari e delle forze dell’ordine.

E’ quanto succede a Cormons dove il 26 luglio, poche ore dopo il comunicato radiofonico che dava notizia del crollo del regime, alcune decine di persone, guidate dai militanti dell’organizzazione clandestina comunista, si riuniscono in piazza e danno vita ad un corteo diretto alla sede municipale, che però viene affrontato e disperso da un gruppo di ufficiali della locale caserma.

Due giorni dopo, il 28 luglio, sono gli operai delle due principali fabbriche goriziane, il Cotonificio Triestino e le officine SAFOG, che scendono in sciopero chiedendo aumenti salariali e l’allontanamento dei fascisti dagli stabilimenti. Ma anche questa protesta è di breve durata in quanto intervengono le forze dell’ordine che impongono ai lavoratori il rientro nelle fabbriche e la ripresa regolare del lavoro.

I fatti più rilevanti si registrano invece a Monfalcone dove il 26 luglio 1943 i lavoratori dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico sospendono il lavoro e nello stabilimento provvedono a rimuovere i fasci littori, le insegne fasciste e tutto ciò che ricorda il regime mussoliniano. Una parte delle maestranze raggiunge in corteo il centro della città, dove alcuni operai prendono la parola in improvvisati comizi volanti inneggiando alla pace ed al ripristino delle libertà democratiche.

Nella tarda mattinata un gruppo di lavoratori penetra nei locali della casa della Gioventù Italiana del Littorio e li devasta. Successivamente le maestranze si dirigono alla sede del Fascio di Combattimento con l’intenzione di fare altrettanto: l’edificio è però presidiato all’interno da alcuni fascisti armati e all’esterno dalle forze dell’ordine. I carabinieri di guardia intervengono infatti in modo deciso e, facendo anche uso delle armi, disperdono i manifestanti: durante gli scontri un militare lancia contro i lavoratori una bomba, che provoca diversi feriti, fra cui l’operaio Remigio Visintin di Ronchi dei Legionari, deceduto nell’ospedale di Monfalcone l’11 settembre successivo.

Il giorno dopo gli operai rientrano in fabbrica ma si rifiutano di riprendere la produzione: girano per i reparti alla ricerca dei fascisti che si sono presentati al lavoro e si scagliano contro gli squadristi noti per le azioni violente compiute nel passato e contro quei lavoratori che percepiscono la doppia paga per la loro attività spionistica all’interno dello stabilimento: diversi fascisti vengono malmenati, altri sono imbrattati di minio rosso, accompagnati ai cancelli e cacciati dalla fabbrica, altri ancora vengono percossi all’esterno del cantiere.

Alla testa della protesta si pongono alcuni militanti dell’organizzazione clandestina comunista che tengono comizi nei reparti, procedono alla costituzione della Commissione Interna e avanzano alla direzione la richiesta di smilitarizzare lo stabilimento e di licenziare i fascisti.

Per il secondo giorno consecutivo i lavoratori escono dallo stabilimento e raggiungono la piazza del Municipio, dove alcuni prendono la parola nei comizi volanti e, su pressione dei manifestanti, vengono liberati dalle carceri cittadine anche alcuni detenuti politici.

La direzione del cantiere cerca di tenere sotto controllo gli eventi e lo stesso Augusto Cosulich gira per i reparti invitando gli operai alla calma e paventando il rischio di un possibile intervento repressivo in fabbrica da parte dell’esercito e delle forze dell’ordine. La dirigenza aziendale non prende alcun provvedimento contro gli scioperanti ma anzi decide di considerare come festivo il giorno 26 luglio e consiglia i fascisti più compromessi con il regime a non presentarsi in fabbrica per alcuni giorni per non provocare incidenti più gravi.

Quello stesso giorno, però, la direzione chiede al Comando piazza l’intervento dei militari per presidiare lo stabilimento e per ristabilire la normalità lavorativa. Un reparto militare viene così dislocato a guardia degli ingressi ma i soldati finiscono per fraternizzare con gli scioperanti e di conseguenza l’attività produttiva di fatto non viene ripresa.

Il 28 luglio, invece, la situazione precipita dopo l’ingresso in fabbrica di un distaccamento della odiata Polizia Metropolitana. I militi fascisti, chiamati “bacoli” per la loro divisa nera, cercano con la forza di costringere le maestranze a riprendere il lavoro: si verificano scontri nelle officine e sugli scali, nel corso dei quali i metropolitani fanno uso delle armi provocando contusi e feriti fra gli operai.

Per protesta i lavoratori formano un corteo interno che, dopo aver superato senza incidenti il presidio militare di guardia agli ingressi, esce dallo stabilimento e si congiunge ai numerosi amici e parenti che, al rumore degli spari, erano accorsi ai cancelli.

Per evitare incidenti più gravi, i metropolitani vengono allontanati dal Cantiere e lentamente gli operai riprendono il lavoro anche sotto il ricatto dell’ammiraglio Luigi Rizzo, presidente dei CRDA, che ottiene dal Comando del XXIII Corpo d’Armata la sospensione della fucilazione di due operai del cantiere San Marco di Trieste estratti a sorte e colpevoli di aver partecipato alle locali manifestazioni antifasciste, in cambio del ritorno alla normalità produttiva in tutti i cantieri giuliani.

Con il passare dei giorni la protesta operaia progressivamente si spegne e le forze dell’ordine riprendono il pieno controllo della situazione. Ristabilita la calma, si abbatte sui lavoratori la reazione delle nuove autorità badogliane: alcuni militanti comunisti, noti alla polizia per la loro precedente attività “sovversiva”, e diversi operai, individuati fra i dimostranti più attivi durante gli scioperi, vengono arrestati mentre altri, per evitare l’arresto o dopo qualche giorno di reclusione nelle carceri locali, si danno alla macchia e qualcuno, come Vinicio Fontanot, Romano Grillo, Luigi Floreani, Luigi Quinto, Lucio Andrian e Mario Valcovich, sale sul Carso e si aggrega alle formazioni combattenti slovene o raggiunge i partigiani del Distaccamento Garibaldi nella Selva di Tarnova, in cui già combattono alcuni lavoratori dello stabilimento.

Luciano Patat

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