La risposta al clamore sollevato dal servizio della BBC sul cricket negato alla comunità bangladese a Monfalcone si può riassumere tutta in questa frase attribuita all’ex sindaco Cisint (ma sindaco effettivo all’epoca dei fatti) e riportata dal quotidiano La Stampa: “Mi rifiuto di concedere alla comunità bengalese il privilegio di giocare al loro sport nazionale, per noi non hanno fatto niente”.
“Mi rifiuto di concedere” rappresenta una visione dell’esercizio del potere che nulla ha a che vedere con la democrazia, ma che piuttosto è assimilabile alla monarchia o peggio. È del tutto evidente che qui non si parla di una visione del proprio incarico pubblico come missione di rappresentanza del popolo, bensì come un investimento di “capo” assoluto. Io concedo o non concedo è l’eloquio di un monarca, non del rappresentante di un’istituzione democratica.
Un accorto esercizio della ragione suggerisce che cercare lo scontro a ogni costo con una comunità che rappresenta un terzo della popolazione non può che creare un disagio per tutti e nel medio e lungo termine potrebbe avere conseguenze molto gravi. Un avveduto uso della ragione indica che la strada da seguire è quella dell’integrazione e dell’accoglienza. Un minimo esercizio della ragione fa comprendere che vietare un gioco non porta sulla strada dell’integrazione, a prescindere dai pretesti utilizzati, che si parli di “sicurezza” o “necessità di rispetto delle regole”.
Ma qui all’esercizio della ragione si è preferito l’esercizio del potere.
“Mi rifiuto di concedere alla comunità bengalese il privilegio di giocare al loro sport nazionale, per noi non hanno fatto niente” è una frase inaudita perché presuppone un esercizio personalistico del potere, viola alcuni principi costituzionali, se non altro ove evidenzia che l’esercizio del gioco viene vietato su una base discriminatoria: non possono giocare perché bangladesi. L’esercizio del potere ancora una volta si evidenzia ove si possa ipotizzare che nella Repubblica Italiana il diritto allo sport si concede a chi “ha fatto qualcosa per noi”: all’articolo 33 della Costituzione, ultimo comma, si legge che «La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme» Quindi chi ha pronunciato questa frase si sente al di sopra della Costituzione e interpreta il ruolo di sindaco in maniera errata.
Che la comunità bengalese non abbia fatto niente per noi peraltro è assolutamente falso, sono persone come le altre, lavorano e pagano le tasse. Tutte le accuse mosse loro di “sfruttare” il welfare o altro in realtà riguardano la loro condizione di indigenza, non il colore della pelle o la religione.
Anche perseguitarli in nome di una presunta “arroganza” o “invasione islamica” o altre sciocchezze simili sono affermazioni che hanno la consistenza di bolle di sapone, come ben sa chi vive a Monfalcone.
L’affermazione contenuta nella frase suggerisce una percezione del potere che diventa quasi bullismo nei confronti di una parte della popolazione: vengono perseguitati nella loro passione sportiva perché non fanno niente per noi, o perché sono in qualche modo diversi?
Da non sottovalutare anche l’episodio di una ventina di giorni fa, che ha visto alcuni amministratori della città attaccare per l’ennesima volta la comunità islamica colpevole questa volta del parcheggio irregolare di alcune biciclette davanti al Centro islamico Daar Salam in via Duca d’Aosta, con il pronto intervento della Polizia locale che ha spostato qualche bicicletta. Un episodio in apparenza degno dalle novelle di Guareschi su Peppone e Don Camillo. Che potrebbe certamente fare anche sorridere: l’idea che un assessore, spalleggiato da un altro, sia intervenuto sui social con termini roboanti quali “impossibile convivere con situazioni abnormi”, cui è stato risposto “una battaglia che deve essere portata avanti per non venire fagocitati da un’arroganza che non riconosce come elementi di integrazione la nostra lingua, le nostre tradizioni, la nostra cultura che sono l’essenza del nostro essere. Ci battiamo per garantire il nostro futuro e la conservazione dei nostri usi e costumi, ora gravemente minacciati da una cultura che non riconosce appieno il ruolo delle donne e molti dei nostri valori.” Per qualche bicicletta parcheggiata male… tra l’altro in una strada nella quale costantemente, ogni giorno, si vedono vetture parcheggiate in doppia fila.
Ma non c’è da ridere, anche quest’episodio è stato sicuramente strumentale per sostenere l’ennesimo ricorso del Comune al Consiglio di Stato contro l’utilizzo del Centro culturale per la preghiera collettiva, che come ormai evidente riguarda non epiche crociate per la difesa della cristianità, ma banali questioni risolvibili da un ufficio tecnico. Le sentenze ci sono, è ormai chiaro che la comunità bangladese ha ragione ma si insiste in una guerra insensata, perché chi esercita il potere non vuole ammettere di aver sbagliato, o di aver fatto una crociata contro i mulini a vento.
Esercizio del potere, nient’altro. Per l’esercizio della ragione evidentemente sono stati rimandati a settembre… o alla primavera del prossimo anno, speriamo.
Massimo Bulli